10.28.2011

Postumi Melancholici e Solaris

Lo sguardo vuoto di Kirsten Dunst che sembra dominare consapevolmente la Fine, uccellini che soccombono alla gravità, un giardino che a me ha subito evocato il film "L'Année Dernière a Marienbaud" di Alain Resnais, il dipinto "Cacciatori sulla Neve" di Pieter Bruegel che si disintegra pian piano (chiaro omaggio a "Solaris" di Andrej Tarkovskij), Melancholia che si avvicina alla Terra, Claire (il commovente personaggio interpretato da Charlotte Gainsbourg) che sprofonda passo dopo passo nel terreno cercando inutilmente di salvare l'amatissimo figlio, la buca n°19, un cavallo (altro omaggio a Tarkovskij) che soccombe anch'esso alla forza pianeta che inevitabilmente sta per scontrarsi con il nostro, la sposa che trascina il suo fardello per poi essere trascinata via da una metaforica corrente d'acqua, e poi l'impatto, la Fine.
Questi sono gli 8 minuti che introducono Melancholia, la musica è come noto il preludio di "Tristan und Isolde" di Wagner, le immagini ricordano in quanto a cura e maniacale ricerca estetica, scatti in sequenza di Gregory Crewdson a dare l'effetto di un movimento in slow-motion. Qui l'intero prologo: http://www.youtube.com/watch?v=xWQ2YZG8kcA
ma consiglio di non guardare nulla con la pessima qualità internet, questa prima memorabile sequenza (ma vale anche per il resto del film), ha una fotografia da lasciare senza parole, ricerac questa che è parte integrante del film.
Ecco, dopo aver visto questi 8 minuti per i 5 minuti successivi non baderete minimamente a cosa capita nel film...semplicemente si rimane a bocca aperta con espressione meravigliata a contemplare Lars, poi la sequenza tornerà con insistenza alla mente anche nei giorni successivi.
Poi come già scritto su centinaia di pagine web, il film è suddiviso in due parti, ognuna caratterizzata dalla personalità di una delle due sorelle, l'una che sprofonda nella depressione e che attende Melancholia arrivi con freddo distacco, l'altra razionale e premurosa , terrorizzata  dalla fine imminente.
Forse però non così in molti hanno scritto degli ultimi 30 minuti del film, tanto angoscianti da essere insostenibili (in senso assolutamente positivo, intendo, a me tremavano le mani!), per poi lasciarti esausto sulla poltrona del cinema fino al termine dei titoli di coda, in silenzio. Per questo biisogna trovarsi però in linea con il pensiero forse un po' nichilista di Lars, ossia: non esiste null'altro.
Ho letto da più parti vari tentativi di paragone con "The Tree of Life" di Malick, film che controvoglia mi hanno obbligato ad andare a vedere, e se ci riferisce magari ai contenuti molto in generale (la Vita, il suo senso più "alto", la morte etc etc), sì magari, forse il punto che più gli accomuna è la ricerca e la cura estetica...su questo non c'è nulla da dire per entrambe. Forse però per riassumere il divario tra le due visioni e gli intenti preposti, basta mettere in relazione una sola scena  che accomuna le due pellicole; in maniera stilistica sia in  The Tree of Life che in Melancholia vengono presentati fotogrammi che ritraggono differenti porzioni  dello spazio, ma mentre per il primo è evidente fino all'esasperazione il tentativo di intendere il cosmo come una meraviglia creata da qualcosa di "superiore", con tanto di accompagnamento della "Lacrimosa", quasi a voler far intendere che l'Universo esista per ospitare la vita (visione che trovo arrogante), invece Lars accompagna quei pochi fotogrammi con il silenzio, e la conseguente sensazione di vuoto che genera, lo Spazio è materia, null'altro.
E questa è la linea, Malick in modo capzioso e fastidioso non fa che elogiare una "superiorità" creatrice ed il suo prodotto ultimo, ossia la vita, Lars invece in maniera razionale, fredda e diretta (e non catastrofica!) propone la sua visione...la casualità della vita e quindi la sua unicità, ma al tempo stesso la mancanza di un senso ultimo. Poi in base alle idee di ognuno  colpirà più l'uno che l'altro.
...che bello fare discorso a vanvera, ha sempre il suo fascino! :)
Per restare dunque in linea, con una certa coincidenza Ben Frost, musicista industrial e dedito al noise più cupo, di origine australiana ma trasferito in Islanda da qualche anno dove entrando a far parte della Bedroom Community è diventato stretto collaboratore di Valgeir Sigurdsson, ed il compositore Daniel Bjarnason sono stati commissionati per rivisitare la soundtrack di "Solaris", originariamente composta da Eduard Artemjev, e presentarla in anteprimain occasione dell'ultima edizione dell' Unsound Fest.
Frost ha messo le sue distorsioni elettroniche, Bjarnason ha diretto l'orchestra Sinfonietta Cracovia, e Brian Eno ha rielaborato le immagini del film in modo da proiettarle durante i pochi live concessi per questo progetto. E' affascinante come un'orchestra (più Frost alla chitarra) sia riuscita a produrre un suono quasi sintetico e disturbante tanto quanto quello tipico di Frost nei suoi precedenti lavori. Prima bisognerebbe recuperare "Solaris" (che non è proprio la "risposta" russa a "2001 Odissea nello Spazio"...!!), e la copertina album è significativa, e poi riuscire a tapparsi in un ambiente privo di suoni esterni, un po' come lo spazio, per riuscire a percepire in maniera adeguata le orchestrazioni che spesso giocano su toni molto bassi. Come già detto, personalmente lo trovo un album parecchio affascinante...lascio il teaser: Qui



SÓLARIS Teaser : Ben Frost & Daníel Bjarnason : "Reyja" from Bedroom Community on Vimeo.





Buon week-end e buon ascolto! :)

10.27.2011

@Cafe Oto

Trovandomi ancora in rotta di collisione con il nefasto pianeta "Melancholia", in questa settimana mi è stato impossibile ascoltare qualcosa che non fosse  musica da camera (nello specifico le composizioni  più deprimenti tipo "Adagio for Strings" di Barber). Per niente in linea con questo blog, e dunque riporto pari pari il resoconto del live Julia Kent- (r) ossia Fabrizio Modonese Palumbo- Cindytalk dello scorso 18 ottobre al Cafe Oto (Londra), con tanto di video allucinogeni inclusi:

http://www.fluid-radio.co.uk/2011/10/julia-kent-r-cindytalk-%E2%80%93-live-at-cafe-oto/

Julia Kent, (r), Cindytalk – Live at Cafe Oto

Posted On: October 26, 2011


Julia Kent from Gianmarco Del Re on Vimeo.
“I am happy to be in Europe where people can understand my jokes, the trouble is I don’t have any”. In typical self-deprecatory style, Julia Kent opened Tuesday’s gig with an assured set drawing mainly from her latest album, Green and Grey, a carefully balanced meditation on the dichotomy between the urban and the natural world. Focused and controlled, Kent resisted the temptation of overlaying the loops while weaving delicate and yet piercing melodies suggesting an unresolved sense of longing. In her set she mapped out a tender and fiercely humane diagram of fleeting moments hinged on the transitory nature of life. Her lightness of touch was remarkable, even when she laid bare her vulnerabilities.
A personal highlight was the wonderful Dear Mr Twombly dedicated to the late American painter, a track that took an elegiac tone without mutating into a mournful lament. And yet, at times, I found myself secretly hoping for some slippage of some kind, just to be able to momentarily lose my bearings. That is not to say that she treaded on safe ground opting for the genteel and the achingly beautiful. Instead she injected a suitable tension in the crescendo of several tracks that only sparingly gave way to a more languorous mode. As it was, Kent’s perfectly judged performance favoured a highly polished approach, without trying to be sleek. Deceptively easy to capture, it required active concentration in order to unveil its hidden subtleties. It made for rich pickings.

(r) live at cafe OTO from Gianmarco Del Re on Vimeo.
Back in London under his (r) moniker, and joined by Daniele Pagliaro, Fabrizio Modenese Palumbo was also on top form. A member of Larsen, who gave a rough around the edges but thoroughly enjoyable performance here at Cafe OTO only 10 days ago, Fabrizio also shares the bill with Julia Kent and Paul Beauchamp, as Blind Cave Salamander. As (r) however, he is able to indulge his queerest musical tastes with gay abandon which is what his did in spades.
Rigorously dressed in pink, complete with a pink feather boa, he was joined by Daniele Pagliero who created an electronic tapestry onto which Modonese Palumbo embroidered his electric set with a calculated frenzy that never felt hurried. Singing very softly in a baritone voice, when not howling as he did on Marlene Dietrich’s cover See what the Boys in the Background Will Do, Fabrizio quickly shifted gears moving from the sepulchral to the abstract, fracturing, in the process, any plausible interpretation of a post gay reading of standards such as Tammy Wynette’s The Ways to Love a Man or Marianne Faithfull’s Sister Morphine. Clearly enjoying himself Fabrizio Modonese Palumbo let rip wrestling his guitar while shredding the tracks from his album Drama Queen to bits. All done in good fun and with a penchant for the epic, which might have benefited from a few occasional trimmings, had it not been delivered with such unadulterated gusto that was difficult to dispute.
Third act of the night was the eagerly anticipated Cindytalk. Before coming on stage, Gordon Sharp told me he had prepared a noisy set. Having recently delivered a stunning trio of albums on the Mego label, home to Fennesz and Bill Orcutt, which saw him plunging into uncharted waters to develop a radically new language for Cindytalk, it was difficult to guess how that would translate into a live setting especially one tilted towards the noisier side of the spectrum. Starting off in a suitably sombre mode, more abrasive than melancholic, Cindytalk quickly captured the stage with an assured presence, which indicated that the transgender warrior was not willing to take any prisoners. And yet there was no posturing and nothing confrontational in Cindy’s voice. On the contrary it was immediately apparent how delicate and fragile Cindytalk’s sound was even if coated in an armour of steely dissonance. Performing with his eyes firmly closed as if cocooning himself as one does when inhabiting a non-space as described by Marc Augé, and only occasionally glancing towards the audience or to the back projection onto which spilled images pertaining to the feminine, I felt like an intruder eavesdropping on a very private conversation.

Cindytalk - live at Cafe OTO from Gianmarco Del Re on Vimeo.
It made me think of a passage from a Don DeLillo novel The Body Artist. “That night she stood outside his room and listened to him whimper. The sound was a series of weak cries, half cries, dull and uniform, and it had a faint echo, a feedback, and carried a desolation that swept aside words, hers or anyone’s. She didn’t know what it meant. Of course she knew. He had no protective surface. He was alone and unable to improvise, make himself up. She went to the bed and sat there, offering touches and calming sounds, softenings of the night. He was scared. How simple and true. He was there in the howl of the world. This was the howling face, the stark, the not-as-if of things.
Granted that there is no whimpering in Cindytalk sound, it is just the primeval fear I felt creeping up on me that brought me back to this passage, the feeling of loneliness echoed by Anna Karina’s face flickering on the screen. But it might have easily just been me projecting. Whatever it was, I was left trembling until, like softenings of the night, Julia Kent and Fabrizio Modonese Palumbo joined the proceedings halfway through Cindytalk’s set tracing the contours of a possible path leading towards the light. Without holding onto the helm, Cindy let them gently steer the boat within reach of the shore but still refusing to drop the anchor. The pervasive sense of displacement so intrinsic to Cindytalk’s music remained intact. Never going for the easy option Cindy sat at the piano like someone trying to articulate in a foreign language something deeply personal.
Having prepared myself to a barrage of noise I kept loosing my footing taken aback by the sparseness of the sound enveloped by Julia Kent’s cello and Fabrizio Modonese Palumbo’s electric guitar and viola with murmurs of appeasement. It was a performance that subverted my expectations. Once again, I will borrow from Don DeLillo’s novel to voice my feelings. There is a passage where he writes about the wind, which sums up my experience “There is something about the wind. It strips you of assurances, working into you, continuous, making you feel the hidden thinness of everything around you, all the solid stuff of a hundred undertakings-the barest makeshift flimsy.”
In the end I was left with more questions than answers, and that to me is always a good sign.
- Gianmarco Del Re for Fluid Radio
Poi ho visto che ormai è stata sdoganato su qualche blog anche "Dendrophilia" di Justin Vivian Bond...magari domani sempre che l'orbita melancholica prenda un'altra via...molto più probabilmente mi soffermerò su un album splendido ma deprimente, che a Melancholia si ricollega in maniera stretta, ossia la rivisitazione di Ben Frost e Daniél Bjarnason della soundtrack del film di Andrej Tarkovskij "Solaris".

10.21.2011

Tamer Animals

 Il progetto Other Lives nasce nel 2004 sotto il nome "Kunek", inizialmente un terzetto formato da Jesse Tabish, che potrebbe essere considerato il front-man del gruppo, alla voce, piano e chitarra, Jenny Hsu al violoncello, violino, autoharp, e Colby Owens alla batteria, la cui unica pubblicazione "Flight of the Flynns" risale al 2006.
Al terzetto di Stillwater (Oklahoma), si aggiungono altri due elementi: John Onstott al basso ed organo, e Jonathan Mooney al violino, chitarra, tromba e piano; a questo punto il nome della formazione cambia in Other Lives. Il primo album esce nel 2009 e prende il nome della band, un disco che ha avuto un discreto successo, ma che comunque suona un po' scarno ed incompleto, cadendo a volte anche in una certa mielosità...
Tutt'altra questione è invece il soggetto del post, ossia il loro secondo album "Tamer Animals", uscito a maggio negli USA e soltanto a fine settembre anche qui in Europa, un album di facile ascolto benchè piuttosto complesso e ricco di strumentazioni che si intrecciano, tanto da aver necessitato di 14 mesi di lavorazione, un album notturno, ma soprattutto dal forte potere evocativo....come scritto da più parti, la soundtrack perfetta per un lungo viaggio in auto attraverso paesaggi naturali che si alternano attraverso differenti condizioni di luce. Si trovano chiari riferimenti ai ritmi ripetitivi ed ossessivi di Philip Glass nel brano di apertura "Dark Horse" (di cui Tabish si dice ossessionato), ed un chiaro omaggio alle soundtracks dei vecchi film western curate da Morricone in "Old Statues", una perfetta unione tra indie-folk ed orchestrazioni classiche usate sempre con parsimonia senza cadere in un eccesso fastidioso.

Forse non si tratta di un album immediato, richiede più e più ascolti per poter apprezzare ogni singolo contributo di ogni membro del gruppo (tutti quanti polistrumentisti); nessun brano spicca sugli altri, nessun potenziale singolo...o forse sono tutti potenziali singoli...l'importante è ascoltare l'intero lavoro nella sua completezza per capire che ogni brano è strettamente legato a tutti gli altri.Qui
L'8 novembre suoneranno a Milano (unica data italiana), mi sembra un'ottima occasione per vederli dal vivo:
"For 12"


"Weather"


"Dust Bowl III"

Other Lives - Dust Bowl III from HearYa.com on Vimeo.

Qui lascio il link per l'intera sessione per HearYa.com:
http://www.hearya.com/2011/10/12/other-lives-live-session-94/

Buon week-end! :)

10.18.2011

Un'aggiunta alle Nostre

Sono sempre più dell'idea che la percezione che abbiamo di un disco, per quanto esso possa essere significativo e creativo, sia comunque fortemente influenzata dal contesto in cui lo si ascolta. E' senza dubbio importante l'ambiente fisico, dunque l'inevitabile rumore circostante, è certamente importante l'aspetto legato alla condivisione o meno con un'altra persona/e, ma una particolare rilevanza lo ha anche l'aspetto climatico... Da qui la mia fissa (credo comunque condivisa) di collocare dunque l'ascolto di un album nella sua giusta cornice così che i colori, la temperatura, l'intensità della luce, il grigiore od al contrario un cielo limpido, possano permetterne una maggiore esaltazione.
Tutta questa introduzione per intendere che con l'arrivo dell'autunno, davanti magari ad una tazza di tea caldo accompagnata da una stopposissima torta di nocciole, viene forse più naturale lasciare da parte sonorità elettroniche o comuque "artificiali" per dar spazio a strumentazioni più classiche (suonate sempre in un contesto non legato alla musica classica!); così nel mio caso ho ripreso un ottimo consiglio datomi qualche mese fa: "The Knife that Cuts a Tear" di Kristin Rule (grazie ancora C.! :))
Riassuntivamente: Kristin Rule (o "The Unconventional Cellist"), a differenza delle altre qui ben note violoncelliste pratiche della tecnica looping (Kent, Keating, Olsson, Gudnadottir), proviene dall'emisfero australe, parte del mondo forse per noi europei più facilmente associabile ad altri generi musicali. Per essere più specifici è nata a Stoccolma ma presto trasferita con la famiglia a Melbourne dove ha studiato violoncello per poi dedicarsi anche al saxofono.
Nel 2002 subisce la perdita prematura del padre, ed in cerca di risposte si rifugia nel bush australiano dello stato di Victoria, territorio che si affaccia sul mare della Tasmania, a sud-est dell'Australia; da questa esperienza si fortifica in lei un profondo spirito ecologista e nel 2006 ne nasce l'album di debutto "Be not Afraid", disco dedicato al padre, alla cui pubblicazione segue un tour di 20 settimane per lo stato di Victoria, seguendo per il New South Wales ed il Queensland, percorrendo in sella alla sua moto quindi tutta la costa est australiana, trasportando inoltre con se un pannello solare per generare l' energia elettrica necessaria alla parte elettronica. A questo seguono svariate collaborazioni e commissioni per sonorizzare cortometraggi e documentari tra cui "Memoirs of a Plague", realizzato per la National Geographic ed incentrato sul problema delle locuste in seguito ai cambiamenti climatici. Nel 2010 pubblica "The Knife that Cuts a Tear", album che certamente trova i gusti di chi è solito ascoltare le altre Nostre spesso presenti su questo blog, difatti anche la Rule utilizza un laptop e dei classici pedali (alimentati dall'energia solare accumulata), ed anche lei costruisce le sue composizioni tratto per tratto, introducendo man mano elementi che vanno a creare poi il brano nel suo senso più completo. Alla pubblicazione del secondo album  è seguito un altro tour, questa volta però in sella ad una bicicletta opportunamente modificata in modo da poter trasportare violoncello, strumentazioni elettroniche ed il pannello solare.
Sul suo sito http://www.kristinrule.com tra l'altro denso di contenuti, si possono vedere due corti realizzati utilizzando la sua musica, ovviamente sempre a tematica eco-friendly, nonchè un sacco di fotografie inerenti ai suoi tour...certo che l'Australia deve essere un posto davvero fantastico!



"Nature of Reality" dall'album "The Knife that Cuts a Tear"...sia il brano che il suo modo minimalista e privo di mimica di suonare (che tanto mi ricorda le "altre"), a me lasciano piacevolmente senza parole.


"Insight"


Anche in questo caso non lascio il link per download, piuttosto il suo bandcamp, trattandosi di un'artista fin'ora silenziosa e che meriterebbe senz'altro maggiore visibilità, cosa che spero accada per l'uscita del suo terzo album "The Awakening", prevista nel 2012...ed allora si tornerà, almeno qui, a parlare di lei.


Buon ascolto!
(ed in questo caso non date retta ai post consigliati sotto, il passaggio dalla discrezione della Rule all'eccesso mimico della Beiser sarebbe troppo brusco!)